Ma vediamo in
concreto di cosa tratta il Manifesto, il quale nasce dall’orgoglio degli
operatori del settore che compongono un sistema ristorazione di 300mila
imprese, generano 85 milioni di fatturato e 43 miliardi di valore aggiunto
all’anno per 1 milione di occupati. Un vanto per il nostro Paese e un valore
inestimabile in termini sociali, storici, culturali, antropologici e come volano
dell’attrattività turistica e dell’intera filiera dell’agroalimentare.
Denuncia il rischio concreto di impoverimento che questo settore
vede delinearsi a causa del sorgere di attività collaterali, ai limiti della
legalità, in diretta concorrenza con i pubblici esercizi: home restaurant,
street food, aziende agricole, negozi di vicinato o circoli privati dediti alla
somministrazione a vario titolo e in modalità disparate di alimenti e bevande,
senza che alcun controllo venga applicato sui loro metodi di gestione, sulle
condizioni igieniche, sull’applicazione di tasse o normative di sicurezza. Un
esercito di “ristoratori” improvvisati a partire dal food truck al macellaio,
dalla latteria agricola alle cene, casalinghe nella sostanza ma pubbliche nella
formula, e come tali commerciali, organizzate secondo il principio del social
eating.