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Piergiorgio Siviero di Lazzaro 1915

11/07/2022

Quando la storia crea dipendenza! Si potrebbe iniziare così questa conversazione con Piergiorgio Siviero: una conversazione che spazia dal presente al futuro della ristorazione italiana e che fa emergere il legame potente con i luoghi, con la casa in cui si nasce, si cresce, si punta al futuro. È anche viaggio onirico quello di Piergiorgio Siviero, un viaggio che inizia nel 1999, non appena finisce di frequentare l’istituto alberghiero di Adria, portandolo prima al Kulm di St. Moritz, poi a Milano da Aimo Moroni, infine a Parigi e a Montecarlo con Alain Ducasse. Nel 2005 il rientro a Pontelongo, la città dello zucchero come viene definita, per riallacciare il rapporto mai sopito con Lazzaro 1915, il ristorante di famiglia che novant’anni prima aveva aperto suo nonno Lazzaro, profugo triestino, allora sotto il dominio austriaco.
Ai tempi del nonno il locale era già albergo, intitolato a Trieste per un omaggio alla città di provenienza. Oggi l’albergo esiste ancora, si chiama sempre Trieste, mentre il nome del ristorante è diventato un riconoscimento al fondatore e di questo e molto altro parliamo con Piergiorgio Siviero.

 

Più di un secolo di storia, una conduzione in mano a tre generazioni di Siviero; cosa significa tutto questo nella contemporaneità dell’oggi che ha modificato anche l’economia e la vita sociale di questi luoghi?

“Avere una lunga storia alle spalle è comodo, ma è anche una grande responsabilità. La comodità deriva dal fatto che nasci, cresci, vivi dentro a questi luoghi. Da bambino io sono cresciuto in strada, i miei lavoravano da mattina a sera, ma era una strada buona, dove tutti si conoscevano, eri protetto dalle persone, imparavi ad apprezzare quello che avevi intorno, ognuno dava qualcosa alla vita sociale del paese. Questo stile di vita ti rimane dentro, chi lo ha vissuto se lo ricorda per tutta la vita e determina la radicalità dei luoghi. Di contro c’è la responsabilità che fa nascere dentro di te il senso del dovere ma anche un forte senso di colpa che ti spinge, a un certo punto della vita, a fuggire da quei luoghi, dalle persone che li animano. Poi, però, torni, il richiamo si fa forte. E cosa incontri? Un padre che ti dice: ‘vuoi gestire tu il ristorante di famiglia? Te lo devi guadagnare e, quindi, mi paghi licenza e struttura. Lo faccio perché devi conoscere il valore delle cose, quanta fatica c’è dietro a un’attività’. Un discorso forte, che all’inizio ti lascia l’amaro in bocca ma che poi si rivela giusto, capisci che non è per crearti difficoltà, il pagamento è senza interessi, lungo ma concreto, ci sono rate da rispettare e io, che sapevo solo cucinare, ho imparato da questo cosa significa l’economia di un ristorante. Non mi sarei forse mai reso conto di cosa ci fosse dietro al mestiere del ristoratore se non avessi, fin dall’inizio, imparato a gestirne il conto economico. Ma la cosa più importante di tutte è una sola: quando cresci dentro a una cucina, e io l’ho fatto, ti resta dentro per la vita intera. I gesti di affetto che ricevevo da bambino non erano quelli normali di un genitore che ti viene a vedere mentre giochi a pallone o a basket, non ne avevano il tempo; erano quelli dove tua madre o tua zia ti invitavano a fare i dolci con loro, al punto che in quinta elementare il mio sogno era fare il pasticcere a Parigi. Tutto qui! Un tutto qui che ti fa crescere con la necessità di dimostrare consapevolezza attraverso le azioni, l’esempio. Ancora oggi ai ragazzi che lavorano con me non sto a spiegare a parole: vieni, dico a loro, ti mostro come si fa!”

 

Abbiamo accennato alle tue esperienze in Francia e a Milano: la decisione di tornare c’è sempre stata dentro di te?

“Ti ho in parte già risposto ma, in verità, io in Francia ci stavo molto bene, aiutato se vuoi dalla mia capacità di vivere in modo positivo anche la solitudine, un grande esercizio che dava più valore alle amicizie. Ti dico questo perché è difficile, facendo questo mestiere, parlare di vita al di fuori della professione. La voglia di tornare? L’ho avvertita quando ho compiuto i 26 anni, ero ancora giovane, dovevo imparare ancora un sacco di cose ma sentivo il richiamo. L’ho fatto in punta di piedi, con un grande rispetto per quello che avevano fatto e che ancora facevano mia madre Maria Pia e mia zia Dilva. C’è un passaggio importante nella nostra storia: è il 2012 quando mia sorella, restauratrice d’arte, torna qui. Da quel momento è iniziato un nuovo corso, un primo ammodernamento del locale, una cucina diversa, la perdita, in un colpo solo, di tutti i clienti che venivano qui per mio padre e mio zio, un paese che stava cambiando rapidamente, con questa via che non era più il centro del traffico. Aspetti all’apparenza negativi ma che, in realtà, costituivano gli stimoli di cui avvertivo la necessità. Io sono ottimista di natura e questo, unito ad una scelta di cuore per questo locale, ti fa andare avanti. Senti dentro questo valore, lo comunichi al cliente. Aver comprato ci ha dato la possibilità di cambiare, di evolvere, di non dover rendere conto e avere la libertà di fare quello che vogliamo davvero. È questa la vera svolta: era un ristorante che faceva le cose che facevano tutti, ora è un ristorante che si lega indissolubilmente a ciò che offre questo territorio”.

 

Tua sorella Daniela è già tornata in questa conversazione. Spiegami che ruolo ha nel successo del vostro ristorante?

“Lei svolge tutto il resto di quello che non svolgo io. C’è stato molto parallelismo tra noi fino a qualche tempo fa, ma era sbagliato. Facevamo un punto della situazione ogni tanto, mentre è necessario parlarsi sempre che è quello che facciamo ora. Abbiamo imparato a educarci e confrontarci, un grande passo verso l’obiettivo principe del nostro lavoro: andare verso la qualità della vita. Il confronto dove c’è anche sentimento è difficilissimo. Inoltre adesso c’è anche mia moglie che lavora qui. Abbiamo quindi adottato una tecnica: di lavoro parliamo solo qui e poi andiamo a casa. C’è voluto tempo per imparare a gestire queste cose ma ora sono molto sereno e questo mi fa affrontare meglio ogni cosa. La qualità della mia vita è buona e questo mi spinge quotidianamente a chiedermi: cosa posso fare io, di più, per l’ambiente di lavoro, per le persone con cui collaboriamo, cosa posso fare per gli altri, concernente il mio mestiere? Ad esempio la sostenibilità, parola molto usata, è importante ma devi creare consapevolezza e lo fai partendo dalle piccole azioni che, tra l’altro, si sono sempre fatte. Occorre guardare indietro per andare avanti, prendere il meglio del passato. Perché usare tanta plastica quando non ce n’è bisogno?! Perché non utilizzare il vetro e riciclarlo alla fine del suo utilizzo che è ben più duraturo della plastica. Ho sviato un po’ dalla domanda iniziale me ne rendo conto, ma è anche lo stimolo al confronto con Daniela che mi porta a queste considerazioni. Lei, comunque, è i miei occhi in sala, perché stando sempre in cucina, a volte, si può vedere il mondo con uno sguardo un po’ distorto”.

 

Cucina: sostantivo femminile. È il titolo delle cene che fai l’8 marzo ogni anno. Che ruolo hanno le donne da Lazzaro 1915?

“Le donne sono Lazzaro 1915. Da sempre! Mia madre e mia zia hanno lavorato insieme per una vita in cucina dove c’era la vera fatica e il cuore dell’attività. Da Lazaro se magna bén, dicevano gli avventori. Per me crescere con due donne è stato fondamentale e continua ancora oggi questo modello. Daniela, infatti, ha il contatto diretto con l’ospite e sa rappresentare il valore vero della nostra cucina. Diletta ha portato nuova linfa in cucina, ha reinventato Lazzaro 1915. Io sono quello che appare ma sono sempre state le donne l’anima del luogo”.

 

Stile moderno con un’anima calda, questo dice la Michelin di Lazzaro 1915: è azzeccata come definizione?

“Non ho ancora letto la recensione attuale. Direi più inquieta rispetto a calda. Ma questo mi serve per affermare cosa e chi siamo. Attingo alla grande esperienza che ho fatto con Aimo Moroni e che ha segnato quasi tutti i passaggi successivi. Noi abbiamo scelto di lavorare direttamente con i produttori di materie prime del territorio e sono loro che dobbiamo ringraziare ed esaltare. Lo faccio nel mio menu, ad esempio. Preferisco stare con loro, parlare con loro, anziché discutere dove va la moda della cucina adesso. Capire il valore delle cose facilita la vita”.

 

Hai sempre voluto dare un profilo etico al tuo lavoro, anche in tempi non sospetti: cosa significa per te?

“Quando è arrivata la stella verde della Michelin ho risposto al loro questionario affermando: finalmente. Poi ho inviato un file con la descrizione di tutto quello che avevamo fatto e che stavamo facendo.

  • Detergenti eco certificati
  • Pannelli solari (dal 1987)
  • Caldaia a condensazione con sistema centralizzato per la pulizia ed il reintegro di aria fredda e calda con conseguente risparmio energetico per la produzione di essa
  • Carta forno compostabile, utilizzo di involucri in cellulosa e cera d’api, sacchetti sottovuoto riciclabili
  • Rifiuto indifferenziato prodotto nell’anno 2021 al 13% sul totale peso rifiuti
  • Investimento su azioni Carbon Neutral tramite azienda agricola Maquva di Luciano Quaggio
  • Collaborazione con produttori/fornitori per l’eliminazione degli imballaggi monouso
  • Riduzione dello scarto alimentare con proposte a spreco zero
  • Sostituzione del materiale plastico monouso e graduale conseguente eliminazione

La stella verde ha determinato un’emozione più grande della canonica stella Michelin perché è un segnale di qualcosa che si sta muovendo. Noi dobbiamo renderci conto che la natura è il nostro primo fornitore e, per questo, ho sviluppato un’economia circolare per il mio ristorante scegliendo fornitori in linea con questo pensiero. Poi c’è la formazione che deve riportare alla luce la consapevolezza di cosa significa svolgere questa professione, evidenziando un metodo di lavoro corretto, un rispetto vero delle materie prime che significa, però, anche e soprattutto rispetto dell’ambiente di lavoro, una gestione delle energie, anche umane e il coinvolgimento dei tuoi fornitori e su questo ho trovato interessanti commistioni. Facciamo tutte queste cose per etica ma lo si faceva anche prima, per necessità. Torna il tema di partire dalle piccole cose e la storia in questo è importante per insegnare il presente. Soprattutto ci devi credere perché le cose traspaiono, si vede ciò che facciamo, non si può più sgarrare. È importante investire sul territorio, ne abbiamo la responsabilità, e il vantaggio che ne deriva è l’unicità. L’estetica dura un po’ ma il futuro sarà la salubrità, diceva Aimo Moroni 25 anni fa. E noi abbiamo l’obbligo morale e professionale di investire su questo”.

 

Cosa significa per te far parte del progetto Amodo, la rete dei ristoranti etici?

“La prima cosa che mi ha colpito è stato l’entusiasmo di chi me l’ha proposto. Farne parte, per me, vuol dire avere un luogo dove creare un confronto diretto. Lo dico perché la cucina tende a generare isolamento, mentre è importante confrontarsi, discernere elementi da mettere in atto concretamente e Amodo è il posto ideale per farlo”.

 

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