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Quali elementi definiscono la figura dello chef? L'esperienza di Valentino Mercattilii

23/03/2022

Quali elementi definiscono la figura dello chef? L'esperienza di Valentino Mercattilii

Sto sfogliando le pagine di un libro edito da Rizzoli nel 1982, A tavola al San Domenico. Si parla naturalmente di lui, il San Domenico di Imola, un ristorante che non ha bisogno di presentazioni. Lì, dove ancora oggi brillano due stelle Michelin, si è scritta la prefazione della cucina italiana e, per quanto già sia stato raccontato, ci sarebbero sempre parole nuove da spendere per elogiare questo inenarrabile palcoscenico di vite e buona cucina. 

Il libro porta la firma di Gianluigi Morini, rivoluzionario fondatore, lungimirante sognatore, amante del bello e del buono; mentre l’altra metà della pubblicazione accoglie, suddivise per stagioni, le ricette di Valentino Marcattilii, chef per una vita al San Domenico.

Inizia proprio dalle parole di Valentino la nostra piccola indagine per definire alcuni tratti indispensabili per essere chef. La sua è una figura di riferimento per il panorama della ristorazione italiana, in Italia e nel mondo. Ha firmato piatti iconici, formato giovani, e trasferito con intelligenza a chi ora ha preso il suo posto, il nipote Massimiliano Mascia.

Valentino Mercattilii e Max Mascia, al San Domenico. Foto di C. CastelnuovoValentino Mercattilii e Max Mascia, al San Domenico. Foto di C. Castelnuovo

Valentino Mercattilii

La storia di Valentino Marcattilii è talmente densa che porgli delle domande dirette, circoscritte, è perdersi metà dal racconto. Bisogna lasciarlo andare. In cucina ci è finito per caso, complice il desiderio di lavorare con il fratello Natale, da poco assunto in sala al San Domenico - un luogo che ancora non aveva un’identità ma prometteva bene - e complice pure la volontà di andare oltre il lavoro nel bar della piazza, forse non abbastanza per uno che dentro covava tanta determinazione e voglia di mettersi in gioco.
E dunque, il 18 Luglio 1972, inizia una storia straordinaria.

LL'impareggiabile sala del San Domenico. Foto di C.Castelnuovo

Negli occhi di Valentino si legge ancora la luce di quel primo ingresso in cucina e degli anni a venire, ricchi di incertezza ma segnati da tanta caparbietà e da momenti indimenticabili. “Non sapevo nulla di cucina, eppure facevo. Ascoltavo lo chef dell’epoca, Romani Visani e cercavo di stargli dietro imparando in fretta. Ero l’apprendista di cucina. Questo mestiere era tutt’altra cosa, c’era molto rigore, non aveva il fascino di oggi” dice. Dopo qualche anno è giunto il Maestro Nino Bergese, il re dei cuochi, o il cuoco dei re, com’era definito da molti, convocato da Morini per scrivere un capitolo nuovo del ristorante, poi dilatatosi nel tempo, fatto di innovazioni, basi francesi e di tanta tecnica. Arrivava dalle cucine dei nobili italiani.

Quali elementi definiscono la figura dello chef? L

La curiosità di apprendere le preparazioni da Bergese era così forte che non vedevo l’ora finisse il servizio per iniziare a provare il pan di Spagna, o le altre ricette che, all’epoca, mi sembravano un sogno. Qui fino al suo arrivo si facevano tortelli alla salvia e fesa di vitello, piatti semplici, che avevamo imparato. Volevo provare, capire dove potevamo arrivare. Ho sentito un autentico trasporto per questo mestiere, un senso di attaccamento vero”.

L’interesse, l’entusiasmo per il nuovo, elementi importanti, ma non gli unici che servono per essere chef. Valentino continua.
“Bergese mi ha insegnato cos’è la tranquillità in cucina, un atteggiamento fondamentale, che ho cercato di trasferire a mia volta. Le ore di lavoro sono tante, i picchi di stress sono frequenti, bisogna saperli gestire. Con il tempo ho imparato anche ad allargare la mente, a far entrare tutto ciò che incontravo, in particolare nell’esperienza del San Domenico a New York, che mi ha affacciato al mondo. Ho cucinato per attori, personaggi illustri, ma non ho mai perso la dedizione per la casacca e per il locale. Quand’ero qui a Imola volevo essere sempre il primo ad aprire”.  

La brigata al San Domenico, prima del saluto di Valentino Mercattilii. Foto di C.CastelnuovoLa brigata al San Domenico, prima del saluto di Valentino Mercattilii. Foto di C.Castelnuovo

Oltre all’emozione e all’impegno, di Valentino stupisce la memoria: gli episodi, gli aneddoti, i piatti proposti, i menu, ogni cosa è impressa nel dettaglio nella sua mente. “E sarebbe un guaio se non fosse così! Sono momenti che ho vissuto con molta intensità, non potrei dimenticarli. Quel mattino di metà luglio non lo avrei mai immaginato, ma questo, che sembrava un lavoro come un altro, è diventato la mia vita”.

 

La presentazione del libro "A tavola al San Domenico"La presentazione del libro "A tavola al San Domenico"

“Non è soltanto l’esaurirsi della prima introvabile edizione del 1982 che mi spinge a riproporre una nuova versione di questo libro, ma anche il desiderio di offrire a chi si sveglia la mattina folgorato dalla strada della “padella facile” la testimonianza di quanto valgano lo studio, la fatica, la volontà per gratificare sé stessi e far felici gli altri, misurandosi con l’utopia e credendo nella sua fertilità”. Scriveva così Gianluigi Morini in una successiva edizione del libro A tavola al San Domenico. Un pensiero che, unito alle esperienze sopracitate, aiuta a definire oneri, onori e valori della figura dello chef.


L'indagine sulla figura dello chef continua, con l'intervista a Gianfranco Pascucci...

a cura di

Giulia Zampieri

Giornalista, di origini padovane ma di radici mai definite, fa parte del team di sala&cucina sin dalle prime battute. Ama scrivere di territori e persone, oltre che di cucina e vini. Si dedica alle discipline digitali, al viaggio e collabora con alcune guide di settore.
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