Se gli italiani oggi spendono il 12% del loro reddito in cibo, contro il 32% di cinquant'anni fa, significa che ci si sta allontanando dalla qualità per rincorrere il prezzo, afferma Carlo Petrini ospite assente della tavola rotonda di Fipe dal titolo “Ridare valore al cibo per uno sviluppo sostenibile della filiera”, organizzata a Milano, nel centro congressi Le Stelline e coordinata da Enzo Vizzari, direttore de Le Guide dell'Espresso.
In un'intervista condotta da Edi Sommariva e proiettata all'inizio del dibattito, Petrini ritorna sul tema a lui caro del cibo locale, del legame col territorio e assegna ruoli di responsabilità alla ristorazione italiana e alla politica. La prima dovrebbe portare avanti questo legame, la seconda creare le condizioni affinché la qualità diventi un diritto di tutti. Questi i presupposti per una domanda più cosciente responsabile e un'offerta più economica che non sia più prerogativa solo di un'elite. Ma la disquisizione sul valore del cibo si allarga ad un tavolo di esperti del calibro di Gualtiero Marchesi – il cui nome, per antonomasia, è sempre più l'emblema dell'eccellenza gastronomica italiana – di Paolo Martinello, Presidente di Altro Consumo, di Giorgio Calabrese, noto nutrizionista e di Fipe, presente al tavolo con il suo presidente, Lino Stoppani.
CERTEZZE E MISTIFICAZIONI
La discussione si anima e prosegue all'insegna del tentativo di chiarire se e come si possa dare valore al cibo nella società contemporanea, non solo come necessità di sussistenza ma anche come piacere e valore di conoscenza, una conoscenza che – secondo il Maestro Gualtiero Marchesi – purtroppo scarseggia a cominciare dai banchi di scuola, per finire con gli addetti ai lavori.
“La cucina – in una metafora che ricorre spesso nel suo eloquio – sta ai sapori come la musica sta ai suoni, ma entrambe hanno bisogno di tempo e memoria per diventare arte. Assaporare un piatto deve diventare la metafora dell'assaporare la vita e il rituale che la caratterizza. Una pietanza significa lavoro e creatività. Un lavoro che parte da quello della terra per la raccolta dei suoi frutti per terminare al lavoro dentro un ristorante, passando inevitabilmente per tutte le altre fasi della filiera”.
Parole di Giorgio Calabrese e Gualtiero Marchesi
Ma il valore del cibo passa solo attraverso il localismo? Risposta negativa per il presidente di Altro Consumo Paolo Marti nello, per il quale il problema vero è l'incapacità di riconoscere i prodotti di qualità, siano essi locali o globali. Un prodotto locale non è di per sé sinonimo di qualità. Il fatto è che per giungere a tale valore ci vuole cultura: ad un bambino abituato a mangiare cibi standardizzati nel gusto, un prodotto di qualità non apparirà tale ed è per questo che secondo Martinello “l'alimentazione della cucina collettiva non si deve lasciare al caso. E lo stesso dovrebbe essere per la ristorazione commerciale”. Martinello giudica fallimentare la politica dei marchi e delle certificazioni, dal made in Italy all'IGP, perché serve a rassicurare il consumatore e a colmare la sua incapacità di attribuire il valore del cibo; non è di per sé una fonte di informazione e di conoscenza ma, al contrario, è spesso una mistificazione.
Un esempio? Quanti sono i consumatori a conoscenza che la materia prima della bresaola della Valtellina IGP è la carne di zebù brasiliano e per metà di carne bovina. L'importazione è inevitabile poiché in Valtellina non vengono allevati vitelloni, ma solo mucche da latte. Sullo zebù nulla da eccepire per qualità e sicurezza, è un bovino che vive allo stato brado e si alimenta al pascolo. Ma perché non informarne il consumatore? Per la semplice ragione che il marchio Igp non richiede necessariamente che la materia prima provenga dalla zona territoriale in oggetto, ma soltanto che anche una sola fase della lavorazione avvenga in tale area geografica. E per di più il disciplinare non obbliga i produttori a dichiarare la provenienza della materia prima, al contrario di quanto avviene per i prodotti che ottengono il bollino Dop.