Oggi se ne fa un gran parlare, ma la reputazione è un concetto che viene da lontano nel campo dell’impresa. Risale ai patti siglati con una stretta di mano, un gesto che valeva più di mille cambiali o atti notarili. Certo, non si può ritornare a quel gesto, né si può vivere di nostalgie. I tempi sono cambiati e, oggi, la reputazione è uno degli asset intangibili di un’azienda, e rappresenta – come spiega bene Marco Scotti in un interessante articolo di Economy – l’oro nero del terzo millennio. Basti pensare che Reputation Institute ne fa, per l’Italia, una stima del valore di sei miliardi, dato ricavato dall’analisi delle società capitalizzate in borsa.
Se a questo dato aggiungiamo un valore intrinseco, ma difficilmente misurabile, generato dalle piccole e medie imprese che in Italia rappresentano l’asse portante dell’economia e dello sviluppo, e che della reputazione le più consolidate fanno da sempre il loro punto di forza, possiamo ben confermare l’importanza di questo concetto.
Ma come si può definire la reputazione lungo la filiera del food service? Gli esempi sono innumerevoli, da chi produce a chi distribuisce fino all’operatore della ristorazione. Purtroppo sono esempi ancora basati sulle singole individualità.
Il bravo produttore sa di cosa sono fatti i suoi prodotti, ne conosce la composizione, si avvale delle migliori materie prime e di fornitori e ricercatori di competenza e fiducia. Ci mette la faccia attraverso le certificazioni e la tracciabilità.
Il distributore sta cambiando pelle e non si limita a raccogliere gli ordini o a selezionare in base al prezzo di mercato più funzionale; sceglie, attraverso le visite ai produttori, fa dei test comparati sui prodotti, ricerca le aziende con la reputazione più consolidata, suggerisce, con le corrette motivazioni, quel determinato prodotto al cliente ristoratore in funzione del tipo di cucina e di servizio. Anche lui ci mette la faccia nel farsi garante di un servizio teso a migliorare l’offerta del ristorante.
Lo chef, la sua brigata, il patron del ristorante, infine, rappresentano l’ultimo passaggio di questa filiera. Forse il più importante, perché sono i diretti responsabili di un menu funzionale alla soddisfazione, sotto tutti gli aspetti, dell’ospite. Un cibo che può nuocere alla salute distrugge in un batter d’ali la loro reputazione e, quindi, c’è un elevato e diffuso senso di responsabilità in ciò che fanno quotidianamente.
Quanto varrebbe questa reputazione se mettessimo insieme tutte le componenti della filiera del foodservice? Non lo sappiamo in termini economici, ma potremmo scoprirne il peso sociale se ci confrontassimo un po’ di più, tutti insieme. E sarebbe una scoperta eclatante e utile a fare, tutti, sempre meglio il nostro lavoro.
Infatti è accertato che la reputazione influenza scelte e comportamenti, genera un legame emotivo ed è un ottimo antidoto alle crisi che possono colpire in qualsiasi momento i mercati.
Saperla coltivare, nei rapporti interpersonali ma anche in quelli virtuali, attraverso un uso corretto dei social-network, è un impegno, in certi casi più pesante di altre attività aziendali perché si nutre di trasparenza, ma ne vale la pena.
In ultima battuta non dimentichiamoci mai però che la reputazione la possiamo anche valutare ma la decidiamo e la influenziamo noi, imprenditori, chef, collaboratori, dipendenti, autisti, magazzinieri, camerieri, ristoratori… ognuno nel proprio piccolo può fare la differenza!
Benhur Mario Tondini