Ci voleva, ci vuole e il plauso è meritatissimo: va ai cuochi italiani nel mondo per aver deciso di intraprendere il cammino, lungo molto lungo, di dar vita ad un movimento (che diventerà Fondazione) per richiedere l’iscrizione dell’Italian Cuisine in the world al patrimonio immateriale dell’umanità Unesco.
Così come va dato merito alla caparbietà di un macellaio, Simone Fracassi, per aver coinvolto il suo territorio, il Casentino, come luogo di ospitalità della nascitura fondazione.
Si sono ritrovati in 100 nel Casentino, provenienti da ogni parte del mondo, i cuochi facenti parte del GVCI, Gruppo Virtuale Cuochi Italiani, per rispedire ad un anonimo mittente a capo di una testata di giornalismo enogastronomico l’affermazione che fece alcuni anni fa, di fronte alla richiesta di scrivere di un cuoco italiano all’estero: “Se è andato all’estero vuol dire che qui in Italia valeva poco”!
La dimostrazione, oggi, sta nell’amore che questi cuochi, diventati un vero e proprio esercito, mettono per i prodotti italiani, il legame che li unisce alla cucina della loro terra e, soprattutto, al fatto, come ben racconta Rosario Scarpato, direttore del GVCI e motore del progetto di candidatura Unesco, che “i cuochi italiani, a differenza di tutti gli altri, non sono intercambiabili. Per il loro stile, per la bravura tecnica, per l’attrazione che la loro cucina esercita sui palati di tutto il mondo”.
Non genera business essere riconosciuti come patrimonio immateriale dell’umanità e di questo i cuoci italiani nel mondo ne sono perfettamente consapevoli, ma genera identità e cultura.
“Non c’è futuro né presente se non riconosciamo la storia della cucina italiana” ha ribadito con forza Scarpato nel presentare il progetto davanti ad una platea di giacche bianche. Una storia che, da quando ha preso le strade del mondo, non ha date, non ha testimonianze scritte perché era cucina di emigranti, spesso analfabeti, sicuramente poverissimi, che hanno preso la strada per le Americhe (oggi ci sono 61 milioni di oriundi di origine italiana dall’altro capo dell’oceano Atlantico), portando con sé salse di pomodoro, qualche pezzo di formaggio stagionato, un pugno di pasta.
Non sapevano fare molto per guadagnarsi da vivere e cominciarono a cucinare, per loro, per gli altri emigrati, poi per chiunque si avvicinasse alle loro modestissime pietanze. Ma c’era il gusto, un gusto nuovo, coinvolgente e semplice. Che oggi è ricercato in ogni angolo del pianeta.
Sono forse questi i cuochi che non valgono? Questi sono uomini e donne valorosi che hanno saputo generare identità e cultura, nonostante sia ancora difficile la reperibilità di alcuni prodotti dall’Italia, nonostante ci sia l’Italian sounding, nonostante solo in Giappone esistano 22.000 ristoranti con nome italiano (ma solo una minima parte fa vera cucina italiana). Eppure, quando si tratta di disegnare un ristorante italiano, ci vuole metodo e cultura e chi meglio dei cuochi italiani nel mondo conosce quel metodo, è testimone di quella cultura?
Infine, grazie davvero a Simone Fracassi perché, fin dall’inizio di questo percorso, ha imposto una regola: mettiamo un’idea sul tavolo, cerchiamo di coinvolgere attorno a quell’idea il maggior numero di persone e associazioni. Da quel momento l’idea deve diventare di tutti!
Noi ci siamo! La nostra rivista, il nostro sito, il nostro impegno sono a disposizione per far diventare la cucina italiana nel mondo patrimonio di tutti, patrimonio dell’umanità.
Luigi Franchi