Parliamo di te, come hai cominciato a svolgere la professione di
biologo marino e il perché di questa scelta?
“Ho 63 anni, sono nato in Calabria e mi sono diplomato perito tecnico.
La mia vita professionale è cambiata da giovanissimo perché, dopo il diploma,
dovevo andare a lavorare in quella che è stata l’azienda più scandalosa della
Calabria, la Liquichimica Sintesi, un polo industriale costruito sul nulla
grazie ai finanziamenti dell’allora ministro Colombo che fu chiusa in due
settimane e mai più riaperta. Fu la mia salvezza, andai a Messina e mi iscrissi
all’Università a un corso di laurea, unico in Italia, di Scienze Biologiche con indirizzo oceanografico. Parte da quel corso
di laurea tutto il mio vissuto professionale. Dapprima ricercatore al CNR, per 20 anni, occupandomi della pesca e dell’acquacoltura, delle
risorse della pesca. Poi ho iniziato a girare, facendo sei campagne di pesca in Antartide e, in generale, posso dire di
aver pescato in tutti i mari del pianeta facendo valutazioni sulle risorse di
pesca. Nel 2000 divento dirigente di
ricerca all’ICRAM, l’Istituto di ricerca applicata al mare, mi trasferisco
a Roma e inizio a occuparmi di gestione e conservazione degli ecosistemi
naturali, con una mia personale metodologia: quella di una concezione integrata
dell’ecosistema. Avvio il primo, e a oggi l’unico, progetto di ricerca sulle
aree marine protette italiane, mettendo insieme venti università, dialogando
con tutti. Non si può far leva solo sulle proprie competenze senza dialogare
con gli altri. Questo nella ricerca come nella vita quotidiana! La ricerca consisteva nel marcare i grandi
pesci nei mari italiani; fino ad allora si studiavano uccidendoli, dal 2004
ho cambiato questo sistema barbaro con una marcatura satellitare: dapprima con
la balena, poi con il pesce spada e con tutti gli altri grandi pesci fino allo
squalo grigio mediterraneo, seguendone l’evoluzione. Un periodo dove ero sempre
in barca e, in tutte le barche dove sono salito, andavo sempre in cucina a fare
amicizia con il cuoco: sui pescherecci era il pescatore, sulle navi oceaniche
c’era invece una vera brigata. Mi piaceva cucinare e, a bordo dei grandi
pescherecci che, ogni giorno, avevano i pesci più buoni del mondo, invece, si
mangiava carne in scatola. Nasce così la mia passione per cucinare. I
comandanti mi volevano a bordo, forse anche per questo, oltreché per la mia
attività professionale. Negli anni ho
cucinato ogni tipologia di pesce di quelle 500 commestibili presenti nei
mari italiani. Nel 2005 Carlo Petrini apre l’Università di Scienze
Gastronomiche a Pollenzo e lì inizia una mia seconda vita, divento docente di controllo delle produzioni
agroalimentari. Avevo già una cattedra all’Università Federico II a Napoli
ma questa avventura di un’Università con indirizzo completamente nuovo, le
scienze gastronomiche, mi affascinò moltissimo. Inoltre ero molto vicino a
Petrini e alle sue idee. Nel 2008 vengo, inoltre, chiamato come tecnico a fare
l’assessore regionale all’ambiente della Regione Calabria, in quegli anni mi
cade sulla testa forse uno dei più grandi misteri italiani: le
navi dei veleni, che io scopro a Cetraro, con tutto quello che ne consegue
e che, oggi, sta prendendo, mi auguro, la piega giusta con la riapertura
dell’inchiesta da parte del ministro all’Ambiente Sergio Costa (le navi dei
veleni sono navi affondate nel mare di Calabria che conducevano traffico
illecito di rifiuti tossici e nucleari ndr).
Nel mentre il cibo e la pesca continuano ad essere le cose che mi interessano
di più, invento, con gli amici di Slow Food, Slow Fish a Genova, di cui sono presidente del comitato scientifico”.
Una passione per la cucina che ti porta, a titolo
gratuito, a indossare i panni del cuoco nelle numerose cene di solidarietà a
cui partecipi?“Cucinare mi è sempre piaciuto, a casa i miei genitori erano ottimi cuochi
entrambi, papà meccanico e mamma casalinga. Ho avuto con il cibo, sui
pescherecci, un rapporto viscerale e, da qualche anno, indosso, come hai detto tu a titolo gratuito, la giacca da cuoco
per cene di solidarietà come l’ultima, a Torino, per l’IBRA, oppure a Firenze, con 1.080 persone per il restauro
del mausoleo di Primo Levi ad Auschwitz, o ancora la cena di Natale
all’Istituto di ematologia Seragnoli di Bologna o quelle per Casa Alzal
dell’Associazione per la ricerca neurogenetica di Lamezia Terme. Cene che hanno
un food-cost di 3,5 euro, pur con cibo
eccellente, che ricavo dalla mia conoscenza del mare e della pesca”.
Torniamo
alla pesca e, in particolare all’acquacoltura; come deve essere affrontato il
problema della pesca in Italia, dove il consumo è costantemente in crescita?
“A questo proposito ci tengo a dirti che, da pochi mesi, sono stato
nominato dirigente della Stazione
Zoologica Anton Dhorn, considerata la migliore d’Italia, quinta in Europa e
27° nel mondo su 77.000. Ma, in particolare, ho attivato una Stazione Zoologica
in Calabria, dove faremo presto un concorso per 25 ricercatori e arriverà una
nave oceanografica per la ricerca sul Mar Ionio, un mare ancora poco
conosciuto. Il mio obiettivo è creare
qui un hub per la biodiversità del Mediterraneo. Perché, in 20 anni, siamo
passati dalle 70 specie pescate e
vendute in pescheria alle 10 di oggi. Esiste un problema molto serio di
cultura del pesce in Italia. Ed esiste un altrettanto serio problema di gestione della pesca nel Mediterraneo.
In Italia del pesce che mangiamo pescato nei mari italiani ci sono scorte fino
a marzo, poi dobbiamo per forza comprare
pesce dai 44 paesi che, ogni giorno, portano in Italia pesce fresco. L’acquacoltura,
quindi, facendo chiarezza, è un elemento positivo per quella italiana perché è
sostenibile e offre pesci che sono buoni e sani. Però l’acquacoltura, in
generale, è una iattura se pensiamo che per
un chilo di pesce allevato se ne consumano 4,5 chili di selvaggio per farne
mangime. Questo è il tema vero da affrontare! Non ci possiamo più
permettere di massacrare pesci per allevarne solamente 14 specie. E’ un tema
squisitamente etico, da affrontare e risolvere, perché altrimenti si perde
l’elemento più importante per quanto riguarda il cibo: l’origine, madre di
tutti i possibili ragionamenti sull’argomento. Questo significa anche
migliorare lo strumento utile a capire la provenienza: l’etichetta, che, pur essendo migliorata, deve ancora diventare più completa e chiara. Infine è utile
conoscere e sapere che il Mediterraneo è l’unico mare al mondo privo di ZEE,
zona economica esclusiva. Cosa significa? Che, oltre alle 12 miglia, esiste il
principio della libertà di pesca. Sul
Mediterraneo si affacciano 22 paesi rivieraschi di cui solo sette seguono le
regole comunitarie. Abbiamo 36 stock di specie in sofferenza, la Turchia ha
la più grande flotta di pescherecci esistente e fanno numeri incredibili, in
più arrivano anche dal Giappone a pescare senza regole nel Mare Nostrum”.