Anche un po’ per scelta non abbiamo voluto scrivere subito del terremoto che ha colpito la terra emiliana, non ci piacciono le notizie affannose e imprecise e non siamo un giornale quotidiano che invece ha l’obbligo di darle in tempo reale.
Ne scriviamo adesso, a pochi giorni dall’accaduto, “per non dimenticare” come si usa dire e per raccontare tre storie di persone e di luoghi che hanno a che fare con il cibo, patrimonio materiale e bene immateriale di quella terra, fatto di tradizioni, di abitudini, di solidarietà.
Il cibo è solidarietà e non è per caso che scandisce la storia di una regione dove collaborazione, comprensione e dialogo tra le persone rimangono ancora fatti tangibili.
La prima storia è quella del formaggio, di quel grana che qui, tra Modena e Ferrara, viaggia su una linea di confine: a Modena è Parmigiano-Reggiano, a Ferrara è Grana Padano. I due prodotti DOP più conosciuti al mondo. Ora si ritrovano uniti a reagire al disastro, a cercare di fare in modo che quelle 400.000 forme danneggiate e, in molti casi, irrimediabilmente distrutte, non creino fenomeni speculativi da parte di “sciacalli” che appaiono ad ogni disgrazia. I due consorzi Padano hanno voluto assicurare i consumatori che le forniture continueranno regolarmente e “chiedono ai consumatori di segnalarci eventuali situazioni speculative circa la mancanza di prodotto, o ingiustificati rialzi di prezzo dello stesso".
Chi non è mai entrato in uno stabilimento di stagionatura non sa cosa vuol dire l’emozione delle “scalere”, oggi crollate: novecentocinquanta forme per ogni scalera, un capolavoro di architettura che, fino a pochi anni fa, veniva costruito tutto a mano, spostando una ad una le forme per consentire una stagionatura perfetta. Ma non resteranno a terra a lungo, quelle impalcature, anche se per fare un ottimo Parmigiano-Reggiano ci vogliono 24 mesi. Chi fa il mestiere di casaro vive “per” quel lavoro, prima ancora che “di” quel lavoro.
La seconda storia è quella di Giovanna Guidetti che il 4 ottobre del 2000 entrò per la prima volta nei locali del 1600 a Finale Emilia, di fronte alla Rocca Estense, che ospitavano l’osteria della signora Genoveffa. E se ne innamorò al punto di trasformarli in quel prezioso gioiello di architettura, anche culinaria, e di ospitalità che è oggi l’Osteria della Fefa. Non hanno chiuso neppure un’ora nel giorno del terremoto, davanti alla Rocca distrutta: pane, formaggio, salame gratis per tutti, per accogliere gli abitanti, per confortarli, perché lì c’è davvero una comunità. Aspettavano che tornasse il gas per dare a tutti un piatto caldo.
La terza storia è quella di Antonio e di Elvira Previdi, titolari della Trattoria Entrà, collocata in un grappolo di case tra San Felice sul Panaro e Finale Emilia, tra le due rocche antiche sventrate dal terremoto; la trattoria, attiva dal 1918, non ha subito danni alle antiche mura ma l’interno è stato letteralmente ricoperto del rosso del vino di quella importante carta dei vini che Antonio, anno dopo anno, ha costruito con passione.
“Ma si va avanti - ci racconta mentre tinteggia le pareti per coprire lo scempio - qui eravamo e qui rimarremo, anche se ci mancherà la bellezza del nostro patrimonio storico distrutto”. Servono locali così, servono persone così. Fanno bene al mondo della ristorazione e se, per caso, scegliamo di uscire a cena in una di queste sere di primavera, scegliamo loro o qualcuna delle tante trattorie che punteggiano la bella pianura estense. Sarà un piccolo gesto, un modo come un altro per dire: vi siamo vicini.
Luigi Franchi
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