Il piatto più instagrammato è la pizza. Un segno di come questa ricetta, tipicamente italiana, sia assurta a simbolo e consumo internazionale. Ma a cosa serve sapere questo, se non si fa seguire al primato un insieme di riflessioni e azioni che portino davvero il made in Italy alimentare ad essere simbolo della qualità di vita e di salute, come è ormai acclarato in ogni parte del mondo, tranne che da noi, in Italia?
Le foto ai piatti sono un fenomeno ormai ineluttabile, ma il rischio, come sostengono in molti ristoratori, è che l’estetica superi la tecnica e la conoscenza. E questo, molte volte, avviene proprio nel Paese che è riuscito ad affermare, grazie alla semplicità di materie prime straordinarie, un modo di mangiare semplice e sano.
In Italia, nella ristorazione, lo stiamo perdendo: il pomodoro, fatte salve alcune cucine meridionali, sembra essere diventato un ingrediente illusorio; la pasta secca nei menu è ridotta a un dettaglio. Di contro avanzano texture, arie, sferificazioni, acque di pomodoro o di qualsiasi altro ingrediente che si possa ricondurre a liquido.
Benissimo sperimentare, ma altrettanto bene trovare un filo logico nei sapori, nelle consistenze della cucina, non fosse altro che per rispetto ai numerosi turisti, italiani e stranieri che scelgono l’Italia per la sua cultura gastronomica che si immedesima anche nel paesaggio, nella storia e nello stile di vita.
Invece stiamo attraversando, ed è un guado in cui siamo da diversi anni, un periodo dove la cucina non è più quel sinonimo di piacere e di semplicità che ognuno di noi cerca quando sceglie di fare una cena con le persone più care. Provate ad andare in alcuni ristoranti dove regna un silenzio sospetto. Sono gli stessi dove l’uscita in sala dello chef è vissuta come l’arrivo dell’oracolo che vi dice come si mangia quel piatto, quali sono le posate, come impugnarle per ottenere la massima soddisfazione. E, a volte, è così lunga la spiegazione che il piatto si raffredda, se ci mettete anche l’inevitabile scatto fotografico che modifica l’asseto del tavolo trasformandolo in un piccolo set.
Non è ristorazione e, soprattutto, non è vita questa. Al ristorante si va per vivere un’esperienza, si dice e si scrive ormai da più parti, ma l’esperienza è tale se ha tutti gli ingredienti, compreso il più importante: la felicità di condividere, non una foto ma una conversazione. Non ossessivamente intorno al cibo, ma su una varietà di temi.
L’esperienza è tale se a tavola ci si sorride, se si prende la mano della persona e non se si sposta tutto per far posto alla fotografia perfetta, che poi non lo è mai, a causa delle luci non adatte ad un set fotografico ma ad un tavolo, magari romantico.
Sono solo alcune riflessioni che vogliono portare alla luce un aspetto della ristorazione che rischia di portare fuori rotta le persone e anche i professionisti: questo avviene, è vero, quasi esclusivamente nell’alta cucina, dove la sperimentazione è un mantra ritenuto dai più indispensabile, ma l’alta cucina dovrebbe servire anche da insegnamento a chiunque si avvicini a questo mondo, fosse anche solo per il piacere di farlo, invece qui, in Italia, questo avvicinamento non avviene. Non è così che la cultura del cibo attecchirà.