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Turismo infelice

05/10/2022

Turismo infelice

Una piccola confessione: in origine era turismo gentile.
Poi, complici le immagini estive, il sovraffollamento oltremisura visto in alcuni luoghi, l’incuria dei turisti, italiani o stranieri che siano, insomma la sostituzione con turismo infelice è venuta spontanea. Per non parlare della plastica: una maledizione che è inesorabilmente intrecciata al turismo di massa e sta calando, stagione dopo stagione, ombre permanenti sui nostri luoghi. Cosa è che sta accadendo sotto i nostri occhi? Chi si sta adoperando per correggere tutto questo?

Turismo infelice

Il paradosso dell’isola

Un’immagine mi percorre la mente, prima di qualsiasi altra, quando oggi penso al turismo nei mesi estivi. Ve la racconto quasi come se fosse una (drammatica) storia.
Una fila di barconi stracolmi di persone (parliamo di centinaia e centinaia), con la musica assordante, attracca sulla costa di una bellissima isoletta del Mediterraneo. Subito dopo riversa attraverso grandi scivoli fiumi di teste su docili distese di mare cristallino. Fino ad allora era bellissima quella distesa d’acqua, percorsa da colori calamitanti, dal turchese al verde. Persino dall’aereo o dal satellite se ne rimaneva abbagliati.

Quello stesso mare, minuto dopo minuto, impotente, si trova a dire addio al suo ecosistema e a quei meravigliosi colori. Ormai è rassegnato: anche quel giorno è destinato a sporcarsi, riempirsi di oggetti, mozziconi di sigarette e altri souvenir omaggiati dall’uomo. Piccoli oggetti depositano sul fondale o galleggiano qua e là, quasi fossero parte naturale della scenografia.

Di quell’invasione farebbe volentieri a meno, il mare. E forse, a guardarli bene, non sono felici nemmeno gli umani appena approdati sull’isola. Irritati, sofferenti, infelici, accalcati. Ignari e incuranti, oltretutto, che la sabbia e gli scogli su cui poggiano, su cui stanno consumando le proprie vacanze è il racconto di intere ere geologiche (ci ricorderebbe, con la profondità che lo contraddistingue, l’esperto di storia mediterranea Alessandro Vanoli).

Non finisce qui però, la storia. Perché l’uomo contemporaneo ha un gran bisogno di sfruttare la bellezza dei luoghi. Vuole fare business fin dove ce n’è. E pensa: “Prima o poi la gente dovrà saziarsi e dissetarsi, no?”

E allora, su quella meravigliosa isola pressoché disabitata (conta solo due abitanti) sono schierati all’ingresso, proprio dove approdano le barche per l’escursione giornaliera, una fila di food truck rumorosi e sbrilluccicosi. Sono pieni di cibo, bevande in lattina o in vetro e generano rifiuti su rifiuti gestiti alla bell’e meglio. E poi, poco più in là, il pezzo forte: una squadra di ragazzi svuota a ritmo incessante ananas per ricavarne dei bicchieri da cocktail.

Turismo infelice

Se ne vedono cassette su cassette, tutte impilate, arrivano dalla Costa Rica. Dicono che “tanto l’ananas è biodegradabile”, e ne vendono a migliaia, a dieci euro l’uno. Poco più in là ancora cannucce, scheletri e ciuffi d’ananas costaricense disseminati sul manto inerme di un’isola del Mediterraneo. Sulle rocce, tra gli arbusti, sui sentieri, in prossimità dell’acqua, ovunque. L’isola quasi disabitata del Mediterraneo è diventata piena di tutto… fuor di quello che vorrebbe avere. Per qualche mese sarà casa di frutti che non le appartengono e di uomini che non parlano la sua lingua.

Turismo infelice

Un dramma collettivo

È davvero questo il mondo che vogliamo? È davvero il genere di turismo che può far bene al pianeta? Il dramma è che quello sopracitato non è un’eccezione. Il turismo di massa prende molteplici forme a seconda delle località, del periodo dell’anno, e interessa ormai anche svariati angoli del nostro Paese. E se vi dovesse essere già evidente, perché ormai lo notate da anni, fa bene ricordarlo ma farebbe ancor più bene cambiare le nostre priorità.

A me ne viene in mente un altro, tra i tanti, di esempio: un piccolo borgo di pescatori, intimo, cullato da un’aria leggera, in cui si cenava con del pesce buonissimo, tutto tinto di bianco e di blu, in cui il tempo sembrava infinito. Negli ultimi anni è stato dato in pasto ai turisti e non ha più quiete né magia. E i comunicatori, i promotori, hanno le loro colpe. Possibile che non ci si chieda: sì, ma poi, cosa resta?

Pensiamo alle nostre riviere, alle coste del meridione italiano, alle isole maggiori… e a quelle minori: quanto viene stravolto il loro volto per dare spazio ai turisti nei mesi caldi? Ragioniamo sulle ferie degli italiani e su come organizziamo le permanenze degli ospiti stranieri: c’è una corretta distribuzione del flusso turistico? Le nostre piccole e grandi città sono in grado di sostenerlo? E poi, per soddisfare certi numeri, non stiamo mettendo a repentaglio la nostra identità e la salute dei nostri luoghi?

Un esempio "buono" di venditaUn esempio "buono" di vendita

Vediamo sempre più spesso piccoli borghi (non tutti, grazie al cielo) trasformati in centri commerciali all’aperto. Le botteghe artigiane stanno lasciando spazio a negozietti stipati di oggetti inutili che non hanno a che fare con le nostre tradizioni. I ristoranti sfoggiano menu che non raccontano le culture gastronomiche regionali ma promettono piatti “italiani” e menu turistici a prezzi vantaggiosi. La sera, su questi luoghi, di ritorno dal mare, la gente passeggia ammassata. Si pesta i piedi mentre si guarda intorno spaesata, senza sapere di cosa ha voglia. L’indomani, dopo la lunga notte d’estate, si fa presto il conto: resti di bottiglie, carte, contenitori di cibo lungo le vie che qualcuno dovrà raccogliere.

Anche le comunità sono stanche. Ripenso a un pescatore di Procida che, sconfortato, qualche mese fa mi ha confidato di non poterne più: non riconosce più il luogo in cui è nato, l’isola in cui tutta la sua famiglia ha vissuto. E che Procida, tutto sommato, non è ancora in overdose turistica come lo sono altre sue consorelle. Dove sta il futuro in questo modo di vivere e impegnare il nostro tempo? È davvero questo che intendiamo quando diciamo che l’Italia potrebbe vivere di turismo?

Un problema destagionalizzato

Guai però a pensare che il problema sia solo estivo.
Pensiamo alle nostre montagne appena si affaccia la prima neve: in marcia, tutti in marcia, a scendere dalle dorsali alpine! Lì non ci saranno più gli ananas ma altri sgraditi souvenir lasciati accidentalmente sulle piste e nei dintorni (che poi riaffiorano in estate, sui prati verdi delle nostre Alpi). E poi pensiamo ai milioni di metri cubi d’acqua impiegati per produrre neve artificiale. Circa 95 milioni l’anno per l’intero arco alpino, come ricorda Michil Costa, una persona che andrebbe letta e ascoltata da tutti, soprattutto da chi prende decisioni. Nel suo FuTurismo, un libro che è un accorato appello contro la monocoltura turistica, ce n’è per tutti: per i tour operator, le strutture alberghiere, i turisti. Per l’uomo tutto, quando è incivile, prepotente e si dimostra per la sua scarsa intelligenza, per il suo egoismo; quando dà il meglio di sé nel suo essere ospite offensivo, incurante dei luoghi.

Michil Costa nell’hotel di famiglia, La Perla di Corvara, quest’anno ha pensato di stimolare le condotte sostenibili dando un premio, per esempio regalando una notte di pernottamento qualora l’ospite faccia qualcosa di concreto per l’ambiente. Parlandone con Silvia Livoni Colombo, l’ideatrice di Bike Hub ® (vi spieghiamo sotto di cosa si tratta), conveniamo che questo percorso dovrebbero intraprenderlo molti albergatori, e in generale tutto il settore dell’accoglienza. Perché premiare il comportamento virtuoso, realmente virtuoso e sostenibile, educa. Non è immediato ma è un’azione, a cui ne consegue un’altra, poi un’altra ancora… E se gestito nel modo giusto è anche più profittevole.

Un progetto turistico positivo

Se da un lato è sconcertante constatare certe involuzioni, dall’altro è doveroso raccontare i progetti nati per contrastare il turismo di massa. Uno è Bike Hub ® , un format per la valorizzazione mediatica ed economica di territori e aree minori che “trasforma” le destinazioni di rilievo nel panorama cicloturistico promuovendo le buone pratiche. Ce lo racconta l’ideatrice, Silvia Livoni Colombo.

“La bicicletta è un mezzo di trasporto ma anche un mezzo di comunicazione. Mette in connessione, con una velocità “ideale”, le persone e i luoghi. Bike Hub parte da questo concetto. Affianchiamo le pubbliche amministrazioni e le imprese dei territori per creare destinazioni cicloturistiche che tengano conto della valorizzazione identitaria del territorio con una specifica formazione e preparazione di tutte le attività della filiera. I primi due sono nati a Terre di Casole, in Toscana, e a Valle Savio, in Emilia Romagna. Nel 2023 partirà anche il terzo, a Lucca”.

Ciclovie, foto di Paolo CiabertaCiclovie, foto di Paolo Ciaberta

Perché le ciclovie hanno un elevato potenziale turistico e sono in linea con il turismo sostenibile? Esse consentono di destagionalizzare il flusso turistico, far scoprire luoghi alternativi alle classiche mete, dare spazio alle piccole attività artigianali, alle strutture alberghiere, alle osterie, ai ristoranti, alle cantine… il resto ce lo spiega Silvia.

“Chi che fa un’esperienza o una vacanza in bicicletta vive in maniera profonda il territorio godendolo appieno ad un ritmo più lento. Nasce in maniera spontanea un’attenzione all’ambiente e verso una vacanza con un impatto ambientale sostenibile scegliendo secondo questi criteri sia la destinazione intesa come territorio che la struttura ricettiva. Inoltre la bicicletta è una lente di ingrandimento e rivela cosa manca ad una città o ad un territorio, ma fa risaltare il bello e il buono degli stessi luoghi. Non a caso i territori con vocazione vitivinicola sono quelli più ambiti per essere scoperti pedalando”.

Turismo infelice

Turismo verticale e ritorno al viaggio

Impossibile, affrontando questi temi, non pensare alle accurate analisi di Valentina Boschetto Doorly (autrice de “La terra chiama”) bravissima nel raccontare la recente migrazione dell’uomo dalle città a località semi-abbandonate ma anche a dipingere il quadro degli errori commessi dall’industria del turismo in questi anni. E, non per ultimo, a definire e promuovere il turismo verticale.

Dice: “Il turismo verticale è il contrario del turismo di massa, dei suoi volumi, della sua velocità e della sua superficialità. È il rifiuto del turismo come settore di consumo, in cui noi, come locuste affamate, invadiamo le destinazioni solo per poi depennarle con soddisfazione dalla nostra lista. È il turismo fuori stagione, fuori calendario e fuori dagli schemi, che visita mete minori, minime, inesistenti. È il turismo dei borghi, degli Appennini, delle terre interne. Delle Prealpi e dei corsi d’acqua, dei parchi nazionali…”.

Ma è anche un turismo che riconduce al significato primo di viaggio, in cui l’incontro è il vero protagonista. A proposito di questo: molti dimenticano che l’essere turisti, per come lo intendiamo oggi, è ben diverso dall’essere viaggiatori. I viaggiatori non sono schiavi del pendolarismo annuale. Non postano i luoghi in cui si recano sui social per vantarsene. Non fanno del viaggio una competizione sociale. Non si affrettano per vedere più siti d’interesse possibili… ma trovano la meta in ogni cosa, vivendo il tempo a disposizione senza affanni. Lasciano che il luogo entri dentro loro e non viceversa.
Se leggerete anche Ilija Trojanov, autore di numerose opere su questo argomento - tra cui l’ultima, Viaggiare istruzioni per l’uso - probabilmente vi farà capire di aver visto tanti luoghi finora… ma di non aver mai viaggiato per davvero.

a cura di

Giulia Zampieri

Giornalista, di origini padovane ma di radici mai definite, fa parte del team di sala&cucina sin dalle prime battute. Ama scrivere di territori e persone, oltre che di cucina e vini. Si dedica alle discipline digitali, al viaggio e collabora con alcune guide di settore.
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