A margine della bella giornata organizzata da “Chef to Chef” in quel di Polesine parmense alla corte Pallavicina nel regno di Massimo Spigaroli, le considerazioni rispetto gli argomenti trattati sarebbero davvero tante e tali da aprire molti confronti. Il filo conduttore della giornata è stata la cucina, il territorio, la tradizione e l’innovazione nella gastronomia. E il collante a tutto questo è stato il lavoro, da qui anche il titolo della giornata, “Cento mani di questa terra”. Il lavoro dell’uomo nelle professioni interconnesse al cibo: nella storia e nelle culture, nelle professioni e nelle attività, dai cuochi ai sommelier, dai produttori agricoli alle aziende di trasformazione di ogni ordine e grado.
Se un tempo la cucina era un modo per distinguere le categorie sociali, oggi la cucina è interclassista. Si mangia di tutto e di più senza cogliere lo status sociale di una persona da cosa mangia. Un tempo non esisteva la cucina del territorio, questa è una interpretazione che risale ad anni molto vicini a noi, almeno da quando abbiamo portato sulle nostre tavole alimenti di territori lontani, aperto le frontiere al cibo e contaminato le nostre tavole nel bene e nel male. Il nostro Paese ha la fortuna di avere tante culture diverse e tanti territori diversi. Il concetto di cucina regionale è di per se astratto se non addirittura errato. La regione è un limite convenzionale voluto dall’uomo per ragioni politiche e amministrative, la cucina nella sua tradizione ha delineato limiti territoriali non precostituiti che possono cambiare nel tempo. Il territorio è un contenitore dentro al quale ci stanno più culture, più esperienze, più prodotti che omologarli assieme diventa complicato se non impossibile. Questa diversità rende il territorio un insieme complesso e vario, un patrimonio culturale ed esperienziale che appartiene a un luogo e a una comunità fatta di uomini, cose e valori impossibile (per fortuna) da riprodurre. Questo è il patrimonio forse più importante dell’Italia che tanti faticano ancora a riconoscere. Quando lo si scoprirà pienamente e speriamo non sia troppo tardi, se saputo valorizzare, sarà una voce primaria del nostro Pil e fonte di tanta occupazione in più.
Il cuoco, artigiano o artista che sia, è oggetto di sempre maggiore attenzione, dai media e dalla televisione, dal mercato quanto dai consumatori. E’ una figura centrale intorno alla quale il mondo del cibo si confronta e si misura. Anche se non è colui che fa le “cose” del territorio, è quanto meno colui che “interpreta le cose” del territorio. Con le tante comparsate televisive il cuoco è senz’altro più protagonista del nostro costume quotidiano che solo pochi anni fa non aveva. Anche nei dibattiti di “Cento mani di questa terra” si è respirato un’aria cuoco-centrica importante per la categoria, ma attenzione a non esagerare. Attenzione a gestire bene il grande momento dello chef. Il bravo cuoco, come dice Vizzari, è uno splendido artigiano che garantisce un piatto impeccabile e un piatto è impeccabile quando i profumi degli ingredienti sono esaltati in un fantastico equilibrio. Qui dovremmo fermarci per riflettere come e dove andrà la cucina nei prossimi anni. Forse ciò basterebbe e ripartire con i piedi in terra per dirla alla Bottura o, come piace di più a noi, con i piedi nel territorio e la mente sul mondo. Forse le cucine troppo innovative, soprattutto quelle degli effetti speciali, travalicano troppo sulla sostanza del “fare Cucina” in un momento in cui si ha bisogno di più certezze e più concretezza. L’argomento è soltanto accennato e sappiamo di trovarci nel centro di un ciclone mediatico dove gli stessi protagonisti non saranno tutti d’accordo, ma questo è il bello della vita dal “profumo” che Tonino Guerra avrebbe sicuramente apprezzato.
Roberto Martinelli
(foto di Silvia Censi)