Diciassette minuti di auto separano Contrà Pacche - dov’è allocato il Ristorante Spinechile - e il centro di Schio, cittadina della pedemontana vicentina. Praticamente nulla. Ma in quegli otto chilometri si penetra delicatamente una dimensione naturale bellissima, tra tornanti stretti, alberi e profumi di sottobosco che mutano con le stagioni, al punto che sembra di aver viaggiato per ore. Al culmine di questa impervia strada si scova, senza l’aiuto di insegne, il rifugio di Corrado Fasolato e Paola Bogotto, marito e moglie, cuoco e maestra di sala. La curiosità sale man mano che ci si avvicina alla porta d’ingresso.
Spinechile in cimbro significa angolo, quello in cui è incastonato il fienile da cui si è ricavato il ristorante. In questa struttura adagiata sul costone di una montagna doveva ergersi la casa di Corrado e Paola. È diventata, invece, qualcosa di più: una casa condivisa, un luogo di fuga e di rifugio per se stessi, in armonia con gli altri. Il loro ristorante. Una ventina di coperti, tutti distribuiti al piano superiore; una vetrata che incornicia un panorama profondo, che sfiora, nei giorni limpidi, la laguna veneziana; le pareti che si reggono su sassi datati, i libri incastonati tra quelli; le luci che cadono al millimetro sul tavolo. Il percorso è un susseguirsi di assaggi dalla cucina di ricerca, di equilibrio, di sensibilità di Corrado. Il servizio sa quando deve o non deve esserci.
E poi ci sono i gesti non casuali ma spontanei, che non ti aspetti, come l’accompagnare un grandissimo e invitantissimo pane al centro della sala a metà servizio. Qualunque rumore o conversazione in quel momento diventa irrilevante, le posate smettono di graffiare i piatti, i bicchieri si posano. Prevale solo il suono caldo, di casa, del coltello che Paola affonda sulla crosta. “Il pane al lardo!” annuncia servendolo, con discrezione, ai commensali. In quell’istante tutto si arresta e tutto si unisce, non ci sono più confini tra i tavoli. C’è solo quel gesto, semplicissimo, familiare, che diffonde puro piacere.
Hanno aperto - e non inaugurato, come precisano sempre - sette anni fa, dopo esperienze come il Ciasa Salares in Alta Badia prima e il Met a Venezia, senza pedinare la stampa, senza avere nemmeno un sito web per i primi otto mesi. Senza annunciare. E così fanno ancora, defilati, raccolti tra i silenzi del loro raffinatissimo luogo e gli umori della natura. Qui giungono in tanti, anche dall’estero, con qualsiasi condizione meteo, neve o pioggia che sia, spinti dalla curiosità, attratti dall’unicità del posto, rassicurati dal primo ricordo legato a quella tavola o dal suggerimento di chi ci è già stato. Vengono per scoprire cosa si prova ad attendere, cercare e poi raggiungere un luogo isolato per un pasto. Vengono perché, in questa meta, c’è tutto quello in cui in un ristorante si spera di trovare: cucina eccellente, finezza, accoglienza e la capacità di valorizzare un semplicissimo gesto. I silenzi sì, possono valere più di cento megafoni.