Al workshop di Itchefs-GVCI presso Academia Barilla, chef prestigiosi ed esperti hanno svelato i segreti per fare una brillante carriera all’estero, a partire da due regole auree: sapere bene la cucina classica italiana e mai partire senza contratto!
È iniziata ieri presso l’Academia Barilla a Parma la quattro giorni dell’
Italian Cousine in the World Forum (12-15 giugno), non solo un importante momento di confronto fra chef e F&B manager ambasciatori, attraverso il loro lavoro quotidiano, della migliore cucina italiana autentica nei cinque continenti, ma anche l’occasione per guardare al futuro sia del food and wine italiano nel mondo, sia della figura stessa del professionista italiano che lavora all’estero.
E proprio questo ultimo aspetto è stato ieri al centro del workshop che ha aperto i lavori, organizzato da
Itchefs-Gvci (
www.itchefs-gvci.com) e condotto da
Aira Piva, direttore dell'Italian Restaurant Job Center, con la partecipazione di
Rosario Scarpato, direttore del Forum, e molti cuochi hanno portato le loro brillanti esperienze all’estero.
Un seminario dai contenuti e dagli spunti molto concreti e utili: com’è la cucina italiana nel mondo, perché uno chef italiano dovrebbe lavorare all’estero, qual è il profilo dell’italian chef ricercato e dove, come trovare lavoro nei diversi mercati internazionali, come si lavora operativamente nella cucine all’estero, sono i temi passati in rassegna ed emersi a seguito della riflessione sul come il business model del ristorante si sia profondamente modificato nel corso della storia.
“Si è passati dal modello delle madri, su cui si è costruito il family business, alla seconda era, con un cuoco qualificato in cucina che arriva dall’Italia, verso la metà degli anni Ottanta, e sposta gli spaghetti da contorno a primo piatto di qualità. – ha introdotto
Rosario Scarpato – I mercati sono quelli emergenti, Asia e Russia, i grandi hotel investono sulla cucina italiana, le parole nuove sono Risotto, Pizza e Focaccia, Aragula, Cucina del Nord e Toscana, e la sfida è quella dell’autenticità, da perseguire per distinguersi”. Attualmente viviamo la terza era, quella che vede molti cuochi non italiani venire in Italia dal Giappone, dell’USA, dalla Germania, dal Regno Unito, per imparare in loco la nostra cultura gastronomica e, continua Scarpato “tutte le cucine italiane, da nord a sud, dalla polenta alla caponata, sono inserite nei menu esteri, a sostegno della nuova mission, quella della ricerca della massima qualità degli ingredienti e della sostenibilità”.
Alla luce di questo,
i motivi per i quali un cuoco italiano dovrebbe non emigrare ma partire per una nazione straniera in quanto professionista richiesto, sono più di uno: crescere professionalmente venendo a contatto con stimoli nuovi, costruire una carriera di prestigio, essendo lo status dello chef italiano all’estero molto importante, viaggiare e conoscere il mondo, cambiare vita, avere maggiori soddisfazioni economiche portando la cultura del buon cibo.
Qual è dunque il profilo dell’italian chef? Spiega
Aira Piva “È un cuoco con solide basi di cucina italiana classica, tradizionale, che parla inglese, adattabile, che sa comunicare perché sarà lui l’immagine del ristorante, paziente con le brigate che poco conoscono della nostra cucina, disposto a ripetere e rispiegare spesso, umile, che non si monti la testa se vede la sua fotografia sul giornale un paio di volte, e open minded, predisposto ad accettare il nuovo e il diverso con cui viene a contatto, contestualizzandolo nel luogo in cui si trova”.
L’italian chef rappresenta per la brigata un esperto di cucina italiana, per il ristorante o l’hotel un investimento importante e uno strumento di marketing, per il cliente una garanzia di autenticità che da plusvalore al ristorante. Per tutti questi motivi,
i guadagni sono decisamente interessanti, anche se sempre da considerare nel contesto: un esempio pratico, un executive chef può guadagnare 4500 dollari netti al mese alle Maldive, 5000 dollari a Singapore e 7000 dollari a Hong Kong, ma il costo della vita a Singapore e Hong Kong è nettamente superiore che alle Maldive.
“Per questo
vanno presi in considerazioni tutti gli aspetti contrattuali – sottolinea
Piva – ricordandosi che: il contratto ha valore solo nel paese in cui è stipulato, è scritto in inglese, si deve sempre controllare se il salario è tax free o tassabile, la durata, se l’alloggio e i trasferimenti sono compresi, se le vacanze sono pagate, se è previsto il rientro annuale in Italia e la relocation a fine contratto, i benefit e i bonus, se c’è l’assicurazione medica e come si confronta con le leggi dello stato”.
Inoltre è necessario
prestare attenzione alle truffe, alle offerte di lavoro fasulle create per chiedere soldi e ai contratti irregolari:
l’agenzia Italian Restaurant Job Center è uno strumento di mediazione puntuale ed efficace perché simile ad una agenzia di lavoro ma è gestita direttamente da cuochi che lavorano all’estero, i quali valutano se l’offerta pervenuta è seria e se la figura ricercata riflette autenticamente il ruolo del cuoco italiano.
Qual è allora l’iter di assunzione corretto? Aira Piva esordisce con una regola aurea “In ogni caso, mai partire senza un contratto!”, poi i 10 punti cardini sono: invio del resume (chiaro, veritiero, corto e scritto in inglese corretto), si viene inseriti in una short list, di fa un’intervista via telefono ma quasi sempre via skype (presentarsi bene e rispondere sinceramente), si riceve l’offerta, la si valuta e la si contratta, si parte a spese della compagnia per eseguire un food tasting (eventuale), a cui segue la letter of appointment o il contratto, si valuta il salario, i bonus e i benefit, si forniscono i documenti per il visto di lavoro, si fanno eventuali visite mediche, si riceve il visto e il biglietto aereo pagato (anche se può capitare di partire con il visto turistico e di fare le pratiche in loco.
E una volta che l’italian chef è arrivato, cosa lo aspetta? “La
giornata tipo è lunga e inizia con lo staff meeting, il menu planning e lo staff training – elenca
Piva – per passare poi agli ordini e ai rapporti con i suppliers, alla gestione della brigata quasi sempre multietnica, quindi con
diverse culture, religioni, condizioni sociali e salari, al food tasting e al food costing; solo adesso si arriva al service time e il tempo successivo, altrettanto importante, è dedicato ai rapporti con i clienti e con i media”.
Come si evince,
il sistema dell’ italian restaurant parte dallo chef italiano, ma anche dall’F&B manager italiano, che garantiscono autenticità privilegiando prodotti ed interlocutori italiani di qualità, che aumentano l’autenticità quindi del ristorante stesso, che accrescono la popolarità e la richiesta dei prodotti italiani, favorendo più esportazioni e la crescita del settore,
e si chiude con la conseguente richiesta di più professionisti italiani. Un potenziale circolo virtuoso dunque, anticamera, ci auguriamo, di una nuova era ancora più stimolante e proficua.
Alessandra Locatelli