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Non c’è più gusto. Il tentato suicidio della cucina italiana

10/02/2025

Non c’è più gusto. Il tentato suicidio della cucina italiana

Come uscire dalla sbornia che produce piatti bellissimi e senza sapore e rischia di uccidere la nostra gloriosa ristorazione?

 

La cucina italiana, come la fenice, più la danno per morta e più risorge, forse perché dei defunti non si potrebbe più parlar male. Lo sa bene Mauro Bassini che evoca “il tentato suicidio della cucina italiana” andando con metodo maigrettiano (il nostro è anche sapiente esegeta di Simenon) alla ricerca dei molti colpevoli, o almeno dei sospetti, nel suo libro “Non c’è più gusto edito da Minerva, dove riconosce i Maestri, fenomenali visionari, apripista rivoluzionari seguiti, ahinoi, dai tanti epigoni e via sbiadendo fino ai loro reggicoda. 

Mauro BassiniMauro Bassini

Nella sua analisi, Bassini si tiene ben discosto dal coro delle prefiche che elevano i loro lagni funebri a bara vuota. Da ottimo giornalista (a QN è stato capocronista, caporedattore centrale e vicedirettore) e da frequentatore di cucine stellate, ristoranti “tradizionali” e trattorie, è capace di leggere quel che mangia e ricavarne considerazioni libere da pregiudizi. Così si capisce che non condivide tutto ciò che sentenzia Edoardo Raspelli nella caustica intervista ospitata in apertura del volume il quale dichiara: «La nostra cucina? Bella senz’anima», non risparmiando strali al curaro, cavandosi dalle scarpe sassolini che lievitano fino a diventar macigni, rievocando a proprio merito anche una sua lunga recensione fuori dal coro sulla Stampa, venticinque anni fa, dove affossava El Bulli: “Ferran Adrià, 22 piatti di delusione”.

Ma tornando all’attualità del nostro Paese, quale delle nostre cucine starebbe tirando gli ultimi?
Perché si tratta di capire su quale livrea della camaleontica cucina italica si va spargendo cenere, quella del cosiddetto fine dining, make-up gastro-fighetto dell’alta cucina che dà la sua bella resa in formato fotografico still life (natura morta), con un’attenzione maniacale per l’aspetto estetico nella composizione di piatti che, parafrasando la prosa tagliante di Somerset Maugham, potrebbero essere definiti "Expensively overdressed", dispendiosamente, eccessivamente agghindati?

Edoardo Raspelli, Beppe Tassi, Mauro BassiniEdoardo Raspelli, Beppe Tassi, Mauro Bassini

O questi annunci son forse rivolti a certa cucina “stellata”, che aspira alle stelle o a conservarle, croci e delizie incluse? In base a cosa? Aperture e chiusure che sono endemiche, al fatto che alla media degli italiani s’è ristretto il portafogli o a una cucina che a forza di cercare di innovarsi corre il rischio di rifare il verso a sé stessa?

A Bassini preme ricordarci che non è dello chef “il fin la meraviglia”, elencando fatti e misfatti di un perverso gioco a stupire i clienti, anche su sollecitazione di una corte di vestali convinte d’esser loro il vento, non semplici maniche a vento.
Ecco allora dove finisce per arenarsi la sua lettura di certi menu “talentuosi”: agnello crudo con le ostriche, piselli ripieni, tacchino tonnato, aria di zuppa inglese, insalata che vaga nel bosco, spume e dripping, abusi sifonati, sottovuoto a bassa temperatura ostentato a marchio di cucina innovativa supportata da food engineering, neuromarketing…
Ma chi è rimasto in cucina e chi s’illude d’essere in teatro? 

Non sarà tutto oro quel che sbrilluccica, ma ecco che in queste godibili pagine, il nostro, che fra l’altro è anche autore del magistrale racconto gastronomico della ristorazione bolognese di ieri e di oggi “Qui era tutta lasagna” (Minerva), trova il modo di celebrare i meriti dovuti.
Così onora la grande lezione di libertà, coraggio e apertura mentale di Ferran Adrià, stigmatizzando la legione dei suoi mediocri imitatori che finiscono per trasformare la buona cucina in una parodia di sé stessa. Poi si dedica al suo pantheon personale che annovera una generazione di fenomeni: Nino Bergese, chiamato con geniale intuito da Gianluigi Morini a far alzare in volo il San Domenico affiancandogli il giovane Valentino Marcattilii che imparò presto a volare da solo e che a sua volta aprì la pista al nipote Massimiliano Mascia. E poi Franco Colombani (il Sole di Maleo), Antonio e Nadia Santini (Dal Pescatore, Canneto sull’Oglio), Romano e Franca Franceschini (Romano, Viareggio). Menzione cum laude al “Signor” Gualtiero Marchesi, così come l’hanno sempre chiamato i suoi discepoli, lui che fu fra i pochi a saper essere Maestro, capace di trasformare le sue cucine in impareggiabili scuole da cui sono usciti Enrico Crippa, Carlo Cracco, Davide Oldani, Ernst Knam, Paolo Lopriore, Andrea Berton, Vincenzo Cammerucci, Pietro Leeman, e quanti altri.

Andando avanti nella lettura s’incrociano Vissani, Pierangelini, Ezio Santin, Paracucchi, l’Enoteca Pinchiorri, la famiglia Iaccarino, e poi la spartana trattoria-osteria-bottega di campagna di Peppino e Mirella Cantarelli a Samboseto, nella bassa parmense, e Cesare Giaccone nelle Langhe, “un Ligabue della cucina”. Altro mito irripetibile il Trigabalo di Argenta con lo squadrone composto da Giacinto Rossetti, Igles Corelli, Bruno Barbieri, Marcello e Gianluca Leoni, Mauro Gualandi, Italo Bassi, Pier Luigi Di Diego, Marco Merighi. 

Non c’è più gusto. Il tentato suicidio della cucina italiana
Non c’è più gusto. Il tentato suicidio della cucina italiana

Fra i capitoli non mancano i richiami alle illusioni televisive per giovani aspiranti chef, uno dedicato alle guide, ai giornalisti e ai blogger, intitolato con sarcasmo e disincanto “Il fascino delle balle”, un altro analizza il collasso del sistema, quando finisce che a chiudere siano anche i migliori.

Non poteva mancare in queste pagine un riconoscimento all’opera di Slow Food che permette al nostro autore di celebrare quelle trattorie che incarnano l’Italia “resistente” in cucina, quella che forse più d’ogni altra tiene aperte prospettive future anche per le nuove generazioni di cuochi. Fortunatamente sono tante e sarebbe impossibile elencarle tutte senza fare torti. Così si finisce per mettere i piedi sotto i tavoli delle cucine regionali con l’esortazione, nient’affatto scontata, “ripartiamo dalla terra”. E si approda finalmente laddove a Bassini s’intenerisce la picaglia: L’Osteria del Mirasole di San Giovanni in Persiceto (BO), governata da 22 anni dal “mangiafuoco” Franco Cimini.

Forse è proprio da questi modelli che si può ricominciare.
 

Dunque, non state a tirar fuori le gramaglie dalla naftalina, neppure appuntatevi il bottone nero sulla canottiera, come vidi in piena estate, in una specie di trattosteria, al Sud del Sud dei Santi (come il sommo Carmelo Bene raffigurava la sua Terra d’Otranto). Il rinnovato preannuncio di trapasso della cucina italiana arriva comunque lungo perché prima di lei, in ordine casuale di necrologio, erano stati ripetutamente dati per defunti: il romanzo, la poesia, la pittura e a ricaduta le arti visive, il teatro, la fotografia e varie Arti che però, non sapendo d’esser trapassate, han continuato e continuano imperterrite a produrre, talvolta anche capolavori. Ed è indubbio che accada la stessa cosa dove tutto quel che c’era da cucinare è stato già cucinato e quel che c’era da mangiare è stato mangiato, perché poi si ricomincia a cucinare e a mangiare e a ricucinare, ed è inevitabile che a ogni giro non si riproponga sempre la stessa zuppa nel mutevole mondo della cucina italica. Per queste ragioni facciamo nostro quanto telegrafò Mark Twain, in seguito a una sua annunciata morte in vita: «Reports of my death are greatly exaggerated»
 

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a cura di

Bruno Damini

Giornalista scrittore, amante della cucina praticata, predilige frequentare i ristoranti dalla parte delle cucine e agli inviti nei salotti preferisce quelli nelle cantine. Da quando ha fatto il baciamano a Jeanne Moreau ha ricordi sfocati di tutto il resto.

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